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7 Settembre 2021

Errori, liti & amicizie quando il Leone sbaglia strada

Offese gravi (di lesa maestà cinematografica) che in altri tempi avrebbero avuto conseguenze ben più drammatiche. Nel 1953, il direttore della Mostra Antonio Petrucci fu costretto a dare le dimissioni anche perché la giuria che lui aveva scelto (e che era presieduta da Eugenio Montale) aveva deciso che «nessuna opera si imponeva per valore assoluto» e quindi era stata autorizzata «a non conferire il Primo Gran Premio assoluto Leone d’oro di San Marco» (esagerando però con i Leoni d’argento: sei, e cioè Il piccolo fuggitivo di Orkin e Engel, Teresa Raquin di Marcel Carné, I vitelloni di Fellini, Moulin Rouge di John Huston, I racconti della pallida luna d’agosto di Mizoguchi e Sadko di Aleksandr Ptuško). E a una crisi istituzionale si andò vicino nel 1957 quando, direttore Floris Luigi Ammanniti, la giuria presieduta da René Clair, dopo aver assegnato il Leone d’oro a L’invitto di Satyajit Ray e quello d’argento alle Notti bianche di Visconti, decise di rendere pubblico un severissimo commento al festival e alla sua selezione, dove si leggeva letteralmente «richiamato il dettato del regolamento, e cioè che la Mostra ha lo scopo di segnalare le opere il cui valore sia tale da testimoniare un reale progresso della cinematografia quale mezzo di espressione artistica, (la giuria) ha costatato che alcuni dei film selezionati non rispondevano a tale previsione».
Qualcuno se la immagina, ai nostri giorni, una presa di posizione simile? Oggi sotto i ponti è passata molta acqua e i verdetti delle giurie sono occasione di dibattito critico (a volte) ma sempre di più finiscono per essere accolti da supina accettazione. Quando, nel 2003, il presidente della giuria Mario Monicelli, forse per non contraddire la sua fama di enfant terrible, attribuì a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio il premio «per un contributo individuale di particolare rilievo» mentre il Leone d’oro incoronò il discutibile Il ritorno dell’esordiente Andrej Zvjagincev, a scendere in campo (pro domo sua) fu solo il presidente di RaiCinema Giancarlo Leone che minacciò di boicottare le prossime edizioni della mostra (allora diretta per il secondo e ultimo anno da Moritz de Hadeln), mentre la stampa, nella sua grande maggioranza, preferì un po’ pilatescamente non entrare nella polemica.

Bisogna però dire che solitamente le giurie formate a maggioranza da registi (o comunque con autori in grado di imporre le loro scelte) hanno proposto dei verdetti finali solitamente condivisibili. Se partiamo dal 1999, unanimemente considerato l’anno in cui la Biennale è ripartita grazie al nuovo statuto e alla nuova legge (Paolo Baratta lo racconta benissimo nel suo Il giardino e l’arsenale. Una storia della Biennale, Marsilio 2021), vediamo che in quell’anno Emir Kusturica (insieme tra gli altri a Marco Bellocchio) premia Non uno di meno di Zhang Yimou, nel 2000 Milos Forman (con Giuseppe Bertolucci e Claude Chabrol) consacra Il cerchio di Jafar Panahi. E la storia potrebbe continuare con John Boorman, che nel 2004 premia Il segreto di Vera Drake di Mike Leigh, con Zhang Yimou che sceglie Lussuria, Seduzione e Tradimento di Ang Lee nel 2007 o Wim Wenders che premia Darren Aronofsky e il suo The Wrestler nel 2008. O ancora Ang Lee, stavolta presidente di giuria, che nel 2009 consegna il verdetto meno discusso della recente storia della Mostra, quello per Lebanon dell’israeliano Samuel Maoz. In mezzo però le cose non hanno sempre rispettato questa «regola»: nel 2001, in una giuria dove non era stato nominato un presidente si dice che fu Nanni Moretti a far assegnare le due Coppe Volpi per i migliori interpreti a Luigi Lo Cascio e Sandra Ceccarelli per il poco eccelso film Luce dei miei occhi, accendendo commenti più o meno maliziosi. Per non parlare, nello stesso anno, del Leone d’oro a Mira Nair per Monsoon Wedding Matrimonio indiano, unanimemente considerato indegno del massimo riconoscimento. Mentre la vera sorpresa fu la giuria presieduta da Catherine Deneuve nel 2006 dove seppe scegliere per il Leone d’oro lo straordinario e non certo popolare Still Life di Jia Zhangke (si dice sotto l’illuminata guida del giurato Paulo Branco). Nel 2010 ci fu lo «scandalo Tarantino» di cui abbiamo già parlato, mentre nel 2011 Darren Aronofsky si inchinò al Faust di Sokurov e l’anno successivo Michael Mann premiò Pietà di Kim Ki-duk. Più discusso il verdetto 2013 sotto la presidenza di Bernardo Bertolucci: se in tantissimi apprezzarono il premio a Sacro GRA di Gianfranco Rosi (che per la prima volta innalzava sul gradino più alto un documentario. E italiano per giunta), il resto dei premi privilegiavano un cinema fin troppo attento ai valori formali (Tsai Ming-Liang, Alexandros Avranas, Philip Gröning) forse più adatto ai musei che alle sale di cinema.

https://www.corriere.it/sette/cultura-societa/21_settembre_03/errori-liti-amicizie-quando-leone-sbaglia-strada-42dfbca8-0a49-11ec-9ad8-3887e018c8c4.shtml